Le prime gocce iniziano a cadere dal cielo. Sono ormai un po’ di minuti che temporeggio sull’uscio di quella piccola chiesa di campagna, chiusa nel suo quieto silenzio. I primi rigoli d’acqua sulla mia fronte dicono che e’ il momento di oltrepassare quelle sbarre di ferro che fanno da portone. Sul pavimento affiorano i buchi delle granate che servirono a sfondarle. Dentro, quel 15 aprile del 1994, si erano rifugiate diecimila persone. Accalcate. Fradicie. Si erano chiuse dentro, convinte che nessuno avrebbe potuto profanare la sacralita’ di quel piccolo luogo. Diecimila.
Mi entra dalle narici un odore non piacevole, come di cose vecchie lasciate a consumarsi lentamente tra muffe e scarafaggi. E’ come se quei drappi appoggiati sulle panche rivendicassero la propria presenza, in qualche modo. Ormai non sono piu’ diecimila vestiti, ma solo mucchi di stracci e drappi sporchi, che si stanno sbriciolando col passare degli anni. Qualche cintura, qualche bottone. Distinguo un vestitino giallo, come se brillasse nel non-colore generale. Non avra’ avuto piu’ di pochi mesi il bambino che lo indossava quel 15 aprile. Sull’altare, con la sua tovaglia ancora sporca di sangue, qualche oggetto e carta d’identita’ con segnata l’etnia di provenienza. Tutsi.
Le milizie hutu mandate dalla vicina Kigali erano arrivate all’alba, a bordo di tre autobus. Sapevano della chiesetta e dei tutsi chiusi dentro. Non ci fu pensamento. Non ci furono remore. Nemmeno per una comune fede cristiana. Dalle inferriate cominciarono a lanciare dentro le granate. Esplosero. Tra urla e caos di topi in gabbia. Poi i fucili. Pochi fucili, perche’ un “lusso”. Poi entrarono e macellarono a colpi di machete i piu’, ancora vivi. Le donne le infilzarono e seviziarono con bastoni acuminati. I bambini li presero da parte, e sbattendo le loro teste su una parete ci fracassarono il cranio fino a che il sangue si impregno’ nei mattoni sporchi di cervella. C’e’ ancora la macchia scura di sangue su quei mattoni. Quando tutto fu portato a termine, i miliziani si spostarono di pochi chilometri, alla vicina chiesa di Ntarama. Il giorno dopo tocco’ la stessa sorte ai 5000 tutsi chiusisi dentro.
I miei passi rimbombano ora nella cripta buia. Le casse di legno su piu’ livelli contengono le ossa di venti individui ciascuna. Sui teschi quasi sempre la frattura lunga e sottile causata dai machete. Solo alcuni presentano i fori rotondi delle pallottole. Le casse di legno sono aperte. Passo la mano su un teschio. E’ freddo e liscio. Mi viene spontaneo, come una carezza, per chiedere scusa a tutti quei corpi che riposano li’ dentro. Dalle scale sento dei rumori. Scendono due uomini con un sacchetto di juta. Mi dicono di avvicinarmi e guardare dentro. Ci sono cinque piccoli teschi, con ossa mischiate a delle divise scolastiche. Sono stati trovati a qualche centinaio di metri di distanza, dove si sta costruendo una casa. Mi dicono che capita spesso che affiorino dal fango dei resti umani. Come una memoria imperitura. Erano cinque bambini di otto anni. Ripongono le ossa in una cassa e se ne ritornano su con le divise ancora nel sacco. Le appoggeranno su qualche panca.
Questa e’ la storia di un colonialismo europeo, prima tedesco poi belga, che a partire dagli anni ’20 del ‘900, per un proprio tornaconto economico, teorizzo’ in modo abbastanza fantasioso e aleatorio l’esistenza di due differenti etnie, hutu e tutsi, di un popolo, quello ruandese, fino ad allora senza alcuna divisione; etnie che negli anni ‘40 i belgi avrebbero ufficializzato con diciture ben precise sulle carte di identita’. Questa e’ la storia di un colonialismo che poi ha fatto leva su uno o quell’altro gruppo (caricandolo di odio ed esacerbandolo per fini di pura convenienza economica), causando nei decenni differenti guerre. Questa e’ la storia di un genocidio pianificato scrupolosamente dai gruppi hutu piu’ estremi, che il 6 aprile 1994 abbatterono l’aereo su cui viaggiava il presidente, moderato hutu, Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973 e appoggiato dal governo francese. Subito dopo lo schianto dell’aereo, ma anche nella stessa mattinata del 6 aprile, con il pretesto di una vendetta trasversale, cominciarono i massacri, incitati dall’emittente radio “RTLM” che invitava a “seviziare e ad uccidere gli scarafaggi tutsi”. Questa e’ la storia di un massacro che tutta la comunita’ internazionale, gia’ da molti mesi prima sapeva sarebbe esploso, a meno di intervenire. Questa e’ la storia in cui l’ONU, anche a causa del veto degli Stati Uniti, ha deliberatamente ignorato le richieste di intervento provenienti dai suoi stessi generali presenti in loco. Anzi, l’ONU ridusse volontariamente la presenza delle sue truppe in Rwanda poco prima che il conflitto iniziasse. I contingenti dei paesi occidentali, soprattutto di quell’Europa premio Nobel per la pace 2012 (no comment), ebbero l’unico obbiettivo di riportare a casa i propri concittadini. Quegli stessi contingenti, in primis belga e francese, che oltre a non impedire i massacri, pochi anni prima avevano addestrato le milizie hutu con armi e machete provenienti in parte dall’Egitto. Quello stesso Egitto dell’allora Segretario Generale ONU, Boutros-Ghali, che facilito’ in prima persona la fornitura, una fornitura garantita da una banca francese (un investimento a perdere: uno dei paesi allora piu’ poveri al mondo non avrebbe mai ripagato milioni di dollari sperperati in armi. Evidentemente alla Francia interessava piu’ mantenere l’influenza sul paese, minacciata dall’avanzata dei tutsi scappati nei paesi anglosassoni limitrofi). Questa e’ la storia in cui gli autori del genocidio sono rimasti impuniti o indirettamente protetti da paesi occidentali. Gran parte dei responsabili hutu trovarono rifugio nei paesi limitrofi (ad esempio grazie a dei voli organizzati dal governo francese). Gli odi razziali passarono così alle nazioni vicine, causando altre guerre civili (vedasi Repubblica democratica del Congo e Burundi). Questa e’ la storia che i media occidentali hanno generalmente preferito inquadrare in una narrazione deficitaria, sia per una mancanza oggettiva di immagini (durante il conflitto sul posto rimase solo una fonte ufficiale, quella del parigino Le Monde), sia perche’ a conflitto concluso nessuno pareva essere interessato a divulgare cosa fosse successo pochi mesi prima. Una storia durata 100 giorni. Solo 100 giorni in cui vennero dilaniate col machete un milione di persone, tra tutsi e hutu moderati (la maggior parte). Un milione in 100 giorni. Un genocidio, un massacro (non per l’Onu). Avvenuto solo 24 anni fa. E 24 anni fa, sono poco piu’ che l’altro ieri.
A cui nessuno deve voltare la testa dall’altra parte o sentirsi escluso. Perche’ siamo tutti europei. O occidentali. O comunque apparteniamo alla razza umana. E poteva capitare a te che stai leggendo questo pezzo, o ai tuoi figli, a tua moglie, a tuo marito, ai tuoi genitori o ai tuoi amici.
E per quanto mi riguarda, da occidentale, per l’ennesima volta, ancora una volta, tristemente, mi sento di chiedere scusa all’Africa e alle sue creature, che in ogni dove, quando mi vedono, mi accolgono e mi sorridono benevolmente.
Questo quello che ora mi sento di scrivere da Kigali, la capitale del Rwanda. Oggi il Rwanda e’ uno dei paesi piu’ puliti, piu’ sicuri, piu’ organizzati dell’intero continente. Vi consiglio una visita da queste parti, non a caso soprannominata la Svizzera d’Africa (e ci sara’ un motivo per cui l’Arsenal, sulla sua divisa ufficiale, ha la dicitura “visit Rwanda”).
E scusate se per una volta non ho mostrato la parte piu’ poetica di un viaggio in Vespa per l’intero mondo, ma credo che anche questo genere di testimonianza sia utile a conoscere la realta’, oltre i media televisivi e l’odio professato dai politici di turno.
Per chi volesse approfondire, consiglio questo video, dove si vedono ancora i corpi lasciati nella chiesa:
per chi sa l’inglese consiglio questo:
mentre questa la versione completa (https://www.youtube.com/watch?v=SW4pNA0UNO4)
alcune testimonianze di quei giorni:
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(ENG)
When I arrive to Nyamata, the sky is full of clouds and it looks like rain. On the 15th of April, 1994, it rained as well. It came down in buckets. �I don’t remember a lot of that 15th of April, 1994, and of those surrounding weeks; I was 12 years old at the time. As usual, I watched the television news every evening. There were images of a big exodus, people running away from something. A distant population, in Africa somewhere. A story with two main actors, Hutu and Tutsi. For a few months I learned that there existed a country called Rwanda, where men killed each other with machetes. It was the first thing I learned about it. �After, this story, this country, returned to its oblivion in my mind. At least until a week ago, when I crossed into it from Tanzania, and found myself surrounded by green mountains covered in banana plantations.
The first drops begin to fall from the sky. I’ve only been a few minutes here, stopped by the gate of a small country church. I make my way through the gate. The floor is peppered with holes from exploding grenades. Inside this property, on April 15, 1994, ten thousand people had taken refuge. Huddled. Sodden. Terrified. They had locked themselves in, convinced that no one could profane the sanctity of that little place. Ten thousand.
An unpleasant smell wafts by, like old clothes left to mold and beetles. It is as if those drapes resting on the benches make their presence known, the only way they can. Now there are no longer ten thousand outfits―it’s only piles of rags and dirty drapes now, left to crumble over the years. I see a belt, some buttons. Over there is a yellow dress, shining amongst all the drab textiles. The child who wore it on that April 15th could not have been more than a few months old. On the altar, its tablecloth still dirty with blood, there are some objects and an identity card with marked the ethnicity of the bearer. Tutsi.
The Hutu militias sent from nearby Kigali arrived early in the morning aboard three buses. They knew about the church and the Tutsis inside. There was no thinking. There were no qualms. Not even consideration of a common Christian faith. They lobbed grenades inside. Between the screams and the general chaos, they exploded. Then the rifles were put to work. Not a large number of them were on hand, what with rifles being a luxury thereabouts. Then they entered and slaughtered with macheted everyone; most of the trapped people were still alive. The women were tortured with sharp sticks. Babies and children were taken aside and dispatched by smashing their heads against a wall. So many skulls were crushed that the brickwork ran red with blood and brain matter. The stains are still there. Their work done, the Hutu militia moved a few kilometres to the nearby church of Ntarama. The following day, it was the same story for the 5,000 Tutsis that had locked themselves inside.
Now I pace through the dark crypt. I hear the echo of my steps. The coffins, stacked many layers high, each contain the bones of twenty individuals. Almost all the skulls have a long and thin fracture caused by the machetes. Only some have the telltale round bullet-holes. The coffins are open. I pass my hand on a skull. It is cold and smooth. It occurs to me spontaneously, like a caress, to apologize to all those bodies that rest in there. From the stairs, I hear noises. Two men come down with a jute bag. They tell me come over and look inside. There are five small skulls, and bones mixed with school uniforms. They’d found them a few hundred meters away, where a house is being built. They tell me that human remains emerge often from the mud, like an imperishable memory. They were five eight-year-old children. They put their bones in a coffin and return up with the uniforms still in the bag. They will leave them on some bench somewhere.
This is the story of a European colonialism, first German, then Belgian, which starting from the 1920s posited the existence of two different ethnic groups, Hutu and Tutsi; these were the ethnic groups that the Belgians later formalized on Rwandan identity cards. This is the story of a colonialism that allied with one or the other group where convenient, imbuing them with racial hatred and inflaming it for purposes of pure economic convenience. Multiple wars raged over the decades. This is the story of a genocide scrupulously planned by the most extreme Hutu groups, which on April 6, 1994 shot down the plane of the president, moderate Hutu Juvénal Habyarimana, in power with a dictatorial government since 1973 and supported by the French Government. The same morning the plane went down, under the guise of revenge, massacres began. They were egged on by the radio station “RTLM” that implored listeners to “torture and kill the cockroach Tutsi.” This is the story of a massacre that the whole international community, already from many months before, knew would have exploded, unless it intervened. This is the story in which the UN, also because of the veto of the United States, deliberately ignored the requests for intervention coming from its own generals present on the spot. On the contrary, the UN voluntarily reduced the presence of its troops in Rwanda just before the conflict began. The contingents of Western countries, especially those countries that had won the 2012 Nobel Peace Prize (no comment), had the sole objective of bringing home their citizens. Those same contingents, primarily Belgian and French, which not only prevented the massacres, but had trained Hutu militia few years earlier, with weapons and machetes coming partly from Egypt, that same Egypt of the UN Secretary General, Boutros-Ghali, who facilitated the supply of weapons and machetes, guaranteed by a French bank. (A losing investment, mind you: one of the poorest countries in the world will never repay millions of dollars invested in arms. Evidently France was more interested in maintaining their influence in the country, threatened by the advance of Tutsis escaped to the neighboring Anglo-Saxon countries). This is the story in which the authors of the genocide have remained unpunished or indirectly protected by Western countries. Most of those responsible found refuge in neighboring countries, with some of them aboard flights organized by the French government. The racial hatreds thus passed to neighboring nations, causing other civil wars (see Democratic Republic of the Congo and Burundi). This is the story that the Western media have generally preferred to show in a superficial way, both for an objective lack of images (during the conflict there remained only one official source, that of the Parisian Le Monde), and because when everything finished no one seemed interested in divulging what happened few months before. A 100-day history. Only 100 days when one million people were brutally slaughtered with machetes, including Tutsis and moderate Hutus. One million in 100 days. A genocide. A massacre (not for the United Nation at those days). It only happened 24 years ago. And 24 years ago? It’s little more than the day before yesterday.
No one should turn his head or feel excluded. Because we are all Europeans. Or western. Or anyway we all belong to the human race.
And as for me, once again, sadly, I feel the urge to apologize to Africa and its people. The people that everywhere, when they see me, welcome me and smile benevolently.
This is what I now write from Kigali, the capital of Rwanda. Today Rwanda is one of the cleanest, safest, most organized countries in the entire continent. I recommend you visit it. Not surprisingly it’s been dubbed the Switzerland of Africa (and for sure there is a reason why Arsenal, on its official uniform, has written “visit Rwanda”).
And my apologies for not just showing the most beautiful or poetic side of things. I believe that this kind of testimony is useful for getting to know reality. It’s another point of view, apart from the regular narrative pushed by the TV News and politicians.
I suggest to watch this video:
otherwise, this the full version (https://www.youtube.com/watch?v=SW4pNA0UNO4)
about those days:
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(SPA)
Cuando llego a Nyamata, el cielo está nublado y va a llover.
También el 15 de abril de 1994 estaba lloviendo; era la temporada de lluvias y llovió mucho ese día. Yo, de ese día, de esas semanas recuerdo poco: tenía 12 años. Como todas las noches las noticias de la televisión transmiten algunas imágenes de un gran éxodo, una población que huye de algo, una población lejana, en África; quizás dónde; una historia con dos actores principales: los hutu y los tutsi; Tenía 12 años y durante esos meses supe que había un país llamado Ruanda, donde los hombres se mataban con machetes.
Pocos meses más tarde, no sabía más nada, regresó a su olvido, al menos, hasta hace una semana, cuando crucé la frontera entre verdes montañas cubiertas por plantaciones de platanos.
Las primeras gotas comienzan a caer; ahora son unos pocos minutos que me detengo en la puerta de esa pequeña iglesia rural, cerrada por su silencio; el agua que cae en mi frente significa que es hora de saltar el rejado de hierro; veo los agujeros de las granadas en el suelo, las granadas que se utilizaron para abrir este rejado; adentro, ese 15 de abril de 1994 diez mil personas se habían refugiado; apiñados y mojados; se habían encerrado convencidos de que nadie podía profanar la santidad de ese pequeño lugar, eran Diez mil.
Un olor desagradable entra por mi nariz, como las cosas viejas que se desgastan lentamente a través del moho y las cucarachas; es como, si esas cortinas que descansan en los bancos reclamen su presencia de alguna manera. Ahora no hay más diez mil vestidos, sino solo montones de trapos y cortinas sucias, que se están desmoronando con el paso de los años. Un cinturón, unos botones, se distingue un vestido amarillo, como si brillara en el no-color general, El niño que lo usó, ese 15 de abril no habrá tenido más que unos pocos meses. En el altar, con su mantel aún sucio de sangre, se nota unos objetos y unas tarjetas de identidad, marcando el origen étnico: Tutsi.
Las milicias hutu enviadas desde la cercana Kigali llegaron al amanecer a bordo de tres autobuses; Sabían sobre la iglesia y los tutsis en el interior. No había pensamiento, no hubo reparos, ni siquiera por una fe cristiana común, desde las barandillas empezaron a lanzar granadas al interior, explotaron entre gritos y caos como ratones enjaulados; Luego los rifles, pocos rifles, porque es un “lujo”. Despues entraron y mataron con machetes; a las mujeres la pincharon y torturaron con palos afilados. A los niños los tomaron de un lado, golpeando sus cabezas contra una pared, rompieron el cráneo hasta que la sangre se empapó en los ladrillos cubiertos de cerebro. Todavía hay la mancha de sangre oscura en esos ladrillos; Cuando se logró todo, la milicia se trasladó unos pocos kilómetros a la cercana iglesia de Ntarama. Al día siguiente tocó el mismo destino a los 5000 tutsis encerrados en el interior.
Mis pasos ahora hacen eco en la cripta oscura, las cajas de madera en niveles múltiples contienen los huesos de veinte individuos cada una; casi siempre en los cráneos se ve la fractura larga y delgada causada por los machetes, solo algunos tienen los agujeros redondos de las balas. Las cajas de madera están abiertas, paso la mano sobre un esqueleto: es fría y lisa, viene espontáneamente, como una caricia, para pedir disculpas a todos aquellos cuerpos que descansan allí. Desde las escaleras oigo ruidos, dos hombres bajan con una bolsa de yute, dicen que me acerque y que mire dentro: hay cinco cráneos pequeños, con huesos mezclados con uniformes escolares, fueron encontrados a unos cientos de metros de distancia, donde se está construyendo una casa; me dicen que a menudo sucede que emergen del lodo los restos humanos, como un recuerdo imperecedero. Eran cinco niños de ocho años, colocaron los huesos en una caja y regresaron con los uniformes aún en la bolsa, las apoyarán en algún banco.
Esta es la historia de un colonialismo europeo, primero alemán y luego belga, que, a partir de los años 20 del siglo 20 y con fines de lucro, teorizó de una manera bastante imaginativa y aleatoria la existencia de dos grupos étnicos diferentes: hutus y tutsi; y de un pueblo, el pueblo ruandés, hasta entonces sin ninguna división; Grupos étnicos que en los años 40 los belgas formalizaron con una redacción precisa en los documentos de identidad. Esta es la historia de un colonialismo, que, luego apalancó a uno u otro grupo (cargándolo con odio y exacerbándolo con propósitos de pura conveniencia económica) causando guerras a lo largo de las décadas. Esta es la historia de un genocidio planificado escrupulosamente por los grupos hutu más extremos, que el 6 de abril de 1994 derribó el avión con el presidente, moderado hutu: Juvénal Habyarimana; en el poder con un gobierno dictatorial desde 1973 y apoyado por el gobierno francés; Inmediatamente después del accidente del avión, pero también en la misma mañana del 6 de abril, bajo la apariencia de una venganza transversal, comenzaron las masacres provocadas por la estación de radio “RTLM” que invitaba a “torturar y matar a las cucarachas Tutsi”. Esta es la historia de una masacre que toda la comunidad internacional, desde muchos meses antes, sabía que explotaría, a menos que interviniera. Esta es la historia en la que la ONU, también debido al veto de los Estados Unidos, ha ignorado deliberadamente las solicitudes de intervención provenientes de sus propios generales presentes en el lugar. Por el contrario, la ONU redujo voluntariamente la presencia de sus tropas en Ruanda justo antes de que comenzara el conflicto. Los contingentes de los países europeos, Premio Nobel de la Paz 2012 (sin comentarios), tenían el único objetivo de llevar a casa a sus conciudadanos. Esos mismos contingentes, principalmente belgas y franceses, que no solo evitaron las masacres, sino que habían entrenado a las milicias hutus con armas y machetes unos años antes provenientes en parte de Egipto. Ese mismo Egipto del entonces Secretario General de la ONU: Boutros-Ghali; que facilitó la oferta en sí misma, una oferta garantizada por un banco francés (una inversión perdida: uno de los países más pobres del mundo nunca habría pagado millones de dólares desperdiciados en armas). Evidentemente Francia estaba más interesada en mantener la influencia en el país, amenazada por el avance de los tutsis que escaparon en los países anglosajones vecinos. Esta es la historia en la que los autores del genocidio han quedado impunes o indirectamente protegidos por los países occidentales. La mayoría de los funcionarios hutu encontraron refugio en los países vecinos (por ejemplo, gracias a los vuelos organizados por el gobierno francés). Los odios raciales pasaron a las naciones vecinas y causaron otras guerras civiles (ver República Democrática del Congo y Burundi). Esta es la historia que los medios occidentales generalmente prefirieron encuadrar en una breve narrativa, tanto por una falta objetiva de imágenes (durante el conflicto en el lugar solo quedaba una fuente oficial, la del parisino Le Monde) y porque cuando el conflicto terminó a nadie parecía interesarle divulgar lo ocurrido unos meses antes. Una historia de 100 días. Solo 100 días en los que un millón de personas fueron destrozadas con machetes, incluidos los tutsis y hutus moderados (la mayoría de ellos). Un millón en 100 días. Un genocidio, una masacre (no para la ONU). Solo sucedió hace 24 años. Y hace 24 años, soy poco más que ayer.
Nadie debe girar la cabeza de otro lado o sentirse excluido. Porque todos somos europeos u occidentales, de todas formas pertenecemos a la raza humana. Piensa si lo que ha ocurrido fuesen tus hijos, tu esposa/o, tus padres o tus amigos.
Y en cuanto a mí, una vez más, tristemente, lamento disculparme con África y sus criaturas, que en todas partes, cuando me ven, me reciben y sonríen con benevolencia.
Esto es lo que ahora escribo desde Kigali, la capital de Ruanda. Hoy día, Ruanda es uno de los países más limpios, seguros y organizados de todo el continente. Recomiendo una visita aquí, no sorprendentemente llamada la Suiza de África (y habrá una razón por la cual el Arsenal, en su uniforme oficial, tiene las palabras “visita Ruanda”).
Y perdón si por una vez no mostré la parte más poética de un viaje en Vespa para todo el mundo, pero también creo que este tipo de testimonio es útil para conocer la realidad, además de los medios televisivos y el odio declarado por los políticos.
I suggest to watch this video:
otherwise, this the full version (https://www.youtube.com/watch?v=SW4pNA0UNO4)
about those days:
https://www.facebook.com/ilario.lavarra.9/posts/10155495509790834