ANTEFATTO: uscire dalla dogana togolese facendosi timbrare il passaporto, entrare in Benin colpevolmente inconsapevole di un visto che inizia l’8 aprile e sentirsi dire “non puoi entrare, devi aspettare una settimana qui in frontiera dato che indietro non puoi tornare”, FATTO. Comunque…..entrato (tra l’altro sempre fedele al mio credo, mai un centesimo di tangente). VOTO: 2 per tonteria, 10 per scaltrezza da figlio del diavolo…
Sono piccoli gruppi di capanne, fatte di terra e coperte di paglia. Un muretto le difende dall’esterno. Piccole fortezze a se stanti, alle pendici dell’Atakora. Sparse qua e là come i baobab. Di notte il cancelletto di canne si chiude. Come a tenuta stagna. Nessun animale ora può entrare. Tutto fuori, incluso il piccolo granaio conico. Ogni famiglia la sua fortezza. Niente elettricità. Niente. Solo una miriade di arnesi e manufatti creati con quello che la natura offre. Poi solo la savana dell’alto Benin. Con le sue palme, i suoi mango ora a maturazione e poi gli alberi del frutto del formaggio. Ma è una vegetazione diradata, separata da piantagioni di mais o cotone in attesa delle piogge. Sulle radici degli alberi sono posate delle pietre, offerte vudù. Se si osserva bene si notano crani di cane, capra o scimmia. Anche gli incontri sono diradati, ma se capita di incrociare magari una vecchia con il seno scoperto, i saluti abbondano. Saluti fatti da monosillabi da alternarsi vicendevolmente l’un con l’altro. Yo. Fa. Mh. Ah. Toh. E se l’interlocutore lo si conosce, o magari le scarnificazioni sul volto evidenziano che si è dello stesso gruppo, si ricomincia. Yo. Fa. Mh. Ah. Toh. Mi rimane il fatto che io sono qui ora, stanotte, sotto un cielo condiviso da decine di case fortezza che mi circondano ma non vedo, almeno fino a che la luna non si deciderà a spuntare dall’Atakora. Solo la luminescenza di qualche fuoco che illumina qualche parete di terra lontana e il belare di qualche agnello che cerca la madre. Il fischio di una faraona. Io e il cielo con le stelle offuscate dall’Harmhttan. Sdraiato sulla stuoia e il ragazzino di nove anni a pochi metri da me, chiuso nel “castelletto” circolare, senza finestrelle e senza uscire, per otto giorni. Con la sua acqua di mais. È la sua iniziazione. Preferisco la mia di iniziazione, con il Benin.