Le foto sono solo il riflesso del mondo. Dietro ogni singola foto si cela un universo, che non si vede. E si nascondono anche delle storie.
A volte si possono intuire, a volte è giusto spiegarle, contestualizzarle.
Di primo acchito questa foto, ad esempio, esprime felicità, gioia per il traguardo: la punta più a Nord d’Europa raggiungibile con un veicolo.
Ma non dice niente della “poetica” che la sorregge.
Questa la breve cronistoria.
Ero arrivato il pomeriggio del giorno prima all’inizio della penisola estrema, a Russenes, un piccolo villaggio a 130km da Capo Nord. Poche case, una pompa di benzina, poco movimento, il cielo basso, tanto vento. La solita atmosfera rarefatta che già conoscevo, quella degli ultimi lembi di mondo, che si chiamino Alaska, Patagonia, o Capo Nord poco cambia. E che mi piace. Mi danno quella illusione di essere un po’ un esploratore antico, cercatore di poetica, appunto.
Oltre Russenes si srotola la penisola estrema. Un ammasso di pietra ingrata circondata dal mare. Senza nemmeno un albero. Quasi a sottolineare che l’unico motivo al tutto è raggiungere il Capo per poi tornare indietro.
E io a Russenes ci sono arrivato nell’orario più sbagliato. Ma mi sarei meravigliato del contrario.
Mi aspettavano 2 ore di strada, e altrettante per tornare indietro a notte inoltrata (il sole tramonta poco dopo le 18 a ottobre). Nel mezzo un paio di altri villaggi, senza nemmeno un campeggio aperto.
Provo a perdere tempo. Provo a cercare un posto per dormire a Russenes. Niente. Nella piazzola adibita a campeggio non c’è anima viva.
Se temporeggio e non voglio spingermi oltre per quelle ultime ore di luce è perchè so che certi pezzi di mondo meritano un po’ più di rispetto, soprattutto in determinate stagioni. E non la mia solita incoscienza. Ma sono come sono, ne sono consapevole.
Faccio il pieno e poi la strada ricomincia a scorrere sotto le mie ruote. Ma man mano che passano i chilometri, perdono consistenza anche tutti i buoni motivi per tornare indietro. Nel dubbio vado avanti. La dolce condanna con cui mi accompagno nella vita.
È una strada sinuosa a ridosso del mare, spartiacque tra oceano e promontori brulli. Qualche renna isolata, due lunghi tunnel, uno da oltre 6km, l’altro da 4km. Nel 2005, la prima volta che passai da queste parti, non erano nemmeno illuminati.
Ormai sembra quasi un gioco da ragazzi.
Anche il vento è spesso a mio favore. Solo lungo le curve delle anse mi da un po’ da fare.
Quando dopo quasi due ore il cartello segnala “Nordkapp 24km”, inizia la salita sul basso altipiano. Quell’altipiano che si spinge fino alla fine del mondo boreale.
Al primo tornante, l’ultimo pezzettino di mondo mi sembrò d’improvviso precluso: raffiche di vento sferzavano la steppa artica con tale forza, che da una piccola vasca d’acqua fuoriuscivano grandi fiotti di schiuma.
La luce ormai pallida del cielo amplificava i miei timori e quello era un vento che faceva paura.
Per una volta, non mi aveva causato dubbi nemmeno il dover fare retromarcia. Era così manifesta la superiorità del vento rispetto a me e alla mia Vespa, che non potei fare altro che ridiscendere la breve salita.
Per fortuna appena finita la discesa c’era qualcosa di simile ad uno spiazzo adibito a campeggio, con delle bandierine che si dimenavano senza pace. Quel vento che, infatti, mi aveva trasportato per i primi 100km, me lo ritrovavo ora contro. Quasi cado. Mi ritrovo sulla banchina girato di 180 gradi. A motore spento e a spinta indietreggio con la forza delle gambe fino all’entrata dove vado a ripararmi dietro la reception.
All’interno c’è il padrone, intento a fare dei lavori di manutenzione. Ha già chiuso la stagione,
ma capendo la situazione mi apre la casetta degli alloggi. 70€ per una cameretta, ma non ho scelta.
L’indomani pare non essere cambiato nulla. Il vento è ancora “sui 17”, come mi aveva predetto il proprietario. Non avevo afferrato subito. Nessuna scala che conoscessi arriva a 17, al massimo a 10.
Poi ho capito: 17m/s, cioè 61km/h.
Mi sono sentito come un alpinista ai piedi dell’ultimo strappo. L’attacco alla vetta era solo questione di attesa. Bisognava aspettare le condizioni migliori. Ma le previsioni parlavano di almeno altri due giorni pieni di vento. E dal basso, quell’altipiano sembrava dovesse contenere l’inferno, irraggiungibile e vuoto, pericoloso, dove il vento sferza con maggior impeto.
Giorni che non potevo concedermi il lusso di aspettare. Non tanto perchè se sto fermo marcisco, quanto perchè nel giro di una settimana/10gg sarebbe arrivata la prima neve. Mi aspettavano ancora 3000km fino a Oslo. Rinunciare proprio a quei 24km?
Non sarebbe mai stato il “Cape to Cape” che avevo in mente. E poi non sono troppo pratico alle rinunce.
Il pomeriggio, poco dopo pranzo, con la Vespa scarica, senza bagagli, ingrano la prima e ritento la scalata.
Ho parecchio timore, so che mi potrei trovare in una situazione di pericolo, da solo. Ma essere riuscito ad andare oltre il tornante su cui mi ero bloccato il giorno prima mi infonde fiducia. Dura poco. Iniziano i 500m più difficili di tutta la mia vita vespistica. Circa 4 minuti di puro, folle delirio. Mi sono ritrovato con la mia spalla sinistra a combattere con un vento incazzato nero. La Vespa ha il motore urlante in seconda, io il braccio destro alto per non fare scappare lo zaino appoggiato sulla tanica della pedana e la bocca aperta, forse perchè così almeno non devo preoccuparmi di respirare. Una posa plastica, il cui unico scopo vitale è mantenermi il più possibile nel mezzo della carreggiata.
Ed è stato in quel momento in cui mi sono chiesto “chi me l’ha fatto fare”. In quel preciso momento in cui ebbi piena consapevolezza di essermi ficcato in un bel guaio che poteva costarmi davvero parecchio. Se solo avessi esitato una frazione di secondo, fosse stato solo per dover scalare la marcia in prima, sarei partito per la tangente, scaraventato dal vento in mezzo al nulla della steppa.
Non potevo fare altro che sforzarmi con tutte le mie fibre nervose e muscolari ad andare avanti, maledicendomi da solo.
Sono stati semplicemente i 500m più difficili di tutta la mia vita.
La restante ventina di chilometri è scivolata senza troppi patemi. Alle 16.30 del 3 ottobre 2017 sono arrivato nella spianata deserta di NordKapp, solo un gruppo di sudcoreani felici di immortalarsi per una foto sotto il globo. Io di più. Come se avessi doppiato il mio Capo Horn vespistico.
Ecco, questa la mia piccola epopea personale che sta dietro a questa foto, di quel pomeriggio di inizio ottobre, di questo dover vagare e vivere d’emozioni estreme perchè altrimenti la vita mi ammazzerebbe di noia.
Solo con una foto sotto il globo potevo dare il via ufficiale al mio “cape to cape”.
Inutile dire che ritornando al campeggio, quei 500m me li sia rifatti tali e quali, con l’unica differenza che la spalla con cui combattere con il vento era la destra.
E chissà perchè per me gli estremi debbano essere sempre così maledettamente difficili.