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3a edizione!!!

icon-calendarData: 30 Maggio 2019

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….e cosi il mio editore mi scrive che siamo arrivati alla terza ristampa di un libro che, iniziato un po’ per necessita’, rimarra’ uno dei miei lasciti a cui vorro’ sempre un gran bene. Allora, continua a girare per il mondo anche te, da una mente all’altra tagliando latitudini con la leggerezza della fantasia, caro ragazzone mio!
Vi lascio con l’epica di cio’ che fu arrivare per la prima volta con uno scooter fino al punto piu’ settentrionale del continente americano. Buona lettura! 🙂

ddd
E se poi non avete ancora comprato il libro, non e’ mai troppo tardi, soprattutto ora che arrivano le vacanze!… (e magari, e mi rivolgo ai Vespa Club di tutta Italia e ai loro presidenti, potete comprare qualche copia da dare durante le premiazioni 🙂 )

Gadget for fuel


Me ne vado dal campeggio del Denali National Park la mattina del 25 giugno, sotto una di quelle pioggerelline che danno chiaramente l’impressione di avercene per parecchio. Quando mi immetto sulla statale 3 direzione Fairbanks è presto, così presto che l’aria fredda intorpidisce ancora gli ultimi ritmi della notte. La natura è ancora intorpidita dalla notte. Rimango assorto in un ipnotico vuoto mentale, fino a che il rullino del contachilometri si allinea sui miei primi 10.000km.
Sono tanti, almeno per me. in Europa, mai ne ho fatti di più durante un singolo viaggio. Da questo momento in poi sarà un mio piccolo, personale record sulla distanza.
Intanto la Vespa penetra fluida e rassicurante nella rugiada che odora di natura. Mi riempie d’orgoglio. Sono nel mezzo dell’Alaska e ci siamo arrivati senza un guasto. Ha retto in modo ineccepibile. La mia mano sinistra sguscia tra il parabrezza e il faro, ci scappa una carezza. Brava.
Poi riscivolo in un latente elettroencefalogramma piatto.
Non ho voglia di riflettere. Non mi pare il momento per angustiarmi con dubbi di cui solo poche ore prima, sdraiato nella tenda, non sono riuscito a venirne a capo. Devo fare colazione poi, solo poi, si vedrà se sarò bravo a infilare la giusta sequenza di pensieri.
Mi fermo dal benzinaio della tangenziale di Fairbanks. Dietro il bancone del drugstore una ragazza burrosa mi elenca i nomi di tutti i dolci esposti in vetrina. Scelgo una cinnamon roll, una ciambella al sapor di cannella, il cui gusto mi è sempre piaciuto meno del nome incantevolmente americano, soprattutto se pronunciato da una ragazza burrosa. È di una bellezza morbida, quasi classica. Mi piace la coda di capelli castani che le accarezza la spallina scoperta, incorniciandole un viso dalla pelle liscissima, come solo può essere quella di una persona pingue e sana.
‘Sai dove posso trovare un gommista?’, chiedo con poca speranza.
Mi indirizza da un meccanico lì vicino, di sicuro lui lo sa.
Dopo qualche giro a vuoto riesco a conseguire un copertone, uno solo, che può fare al caso mio: non è per Vespa, ma comunque di una misura adattabile.
Allora che fare? Ora che posso macinare chilometri, vado ancora più a nord fino al capo ultimo di Prudhoe Bay, o ritorno verso il Canada?
Dubbi che mi formicolano nella testa in cerca di una risposta non più rimandabile. Me li covo dentro da giorni e ora non ho più una scusa per snobbarli.
Eppure Fairbanks sarebbe il perno perfetto su cui girare le ruote e iniziare la strada verso sud.
Perché arrischiarsi in ‘un di più’ fine a se stesso? Perché affrontare una strada di cui l’unica cosa che so è essere tremenda, dove non c’è nulla, se non un Circolo Polare Artico, che peraltro avevo già tagliato anni prima in Norvegia? Solo per mettere una bandierina col rischio di mandare a monte tutto quanto? Proprio ora che ho toccato la fatidica soglia dei 10.000km?
Non mi pare di avere in merito neanche questioni di principio aperte… in più il tempo è plumbeo e non ispira alcuno slancio per imprese di gloria.
Odio prendere decisioni, perché alla fine faccio sempre di testa mia. Così, con ammirevole incoerenza, mi ritrovo sulla diramazione per la James Dalton Highway, una strada che finisce a Deadhorse, unico villaggio della baia di Prodhoe.
Per un centinaio di chilometri scorre asfaltata tra boschi e recinti, in un prologo rincuorante durante cui ho anche il piacere di incappare in un alce. Se ne sta immobile in mezzo alla carreggiata. È privo del maestoso palco di corna. Deve essere femmina. Mi guarda senza scomporsi, con indifferenza e un’espressione assente molto lontana dal potersi definire ‘intelligente’; un’espressione che cela la pericolosità di un animale che genera più vittime di orsi, tigri e squali messi assieme. Mi ricorda le renne della Scandinavia, nonostante gli abitanti dell’Alaska dicano che le alci siano più pericolose, soprattutto durante le lunghe notti invernali: la loro altezza è tale che, se investite, si conficcano esattamente all’interno del parabrezza.
Gli altri esseri che incrocio sono a bordo di due grosse moto, con direzione opposta alla mia. Noto come siano inzaccherati di fango e mi riprometto che non appena comprovo l’infattibilità del percorso, torno indietro senza perdere altro tempo.
Il prologo termina al cartello verde su cui, tra decine di adesivi di spedizioni motociclistiche, si intravede la scritta ‘James W. Dalton Highway’. Sotto di esso, un brecciolino bagnato e compatto prende il posto di un asfalto che non rivedrò più, salvo un paio di eccezioni, per altro molto circoscritte.
Tra l’infinito manto di conifere lontano agli sguardi dell’umanità, un altro cartello indica le distanze delle tre forme di civiltà presenti lungo la Dalton Hwy: ‘Yukon River 56; Coldfoot 175; Deadhorse 414’ (che in chilometri sono 90, 281, 666).
Tolgo il grosso zaino dal portapacchi posteriore e me lo metto sulle spalle per avere più equilibrio e non sollecitare troppo l’ammortizzatore posteriore.
Non passano dieci chilometri che termina il ghiaino e inizia un tratto in terra battuta. La pioggia l’ha trasformato in fango. Il passaggio di qualche camion l’ha sbattuto per benino, facendolo gonfiare e diventare soffice come una maionese.
Le ruote della Vespa, grandi quanto quelle di una carriola, tendono a bloccarsi dentro meravigliosamente. Spesso sono costretto ad alzarmi dalla sella e spingere, per nulla aiutato dalla ventina di chili che mi comprimono le vertebre. Così la ruota anteriore scivola via, mentre quella posteriore slitta. I copertoni non sono adatti, sono di tipo sportivo: privi di tasselli non hanno presa.
Mi ricredo sui tre distinti sessantenni che avevo conosciuto in Canada. Erano di ritorno dalla loro avventura sulla Dalton Highway e legati ai bauletti delle BMW GS avevano copertoni per fuoristrada. Sul momento mi era sembrato un insensato eccesso di zelo.
Continuo a spingere, sento il rumore delle mie scarpe immerse nella poltiglia. Le vedo sprofondare dentro una morsa morbida di alcuni centimetri; la fatica inizia a salire dalle gambe.
Ho la netta sensazione di star sfidando l’impossibile, è scoraggiante, almeno quanto l’ignoranza di non sapere quello che mi aspetta.
La novantina di chilometri seguenti sono disastrati ma almeno fattibili. Per brevi distanze mi posso anche permettere di sollevare lo sguardo e ammirare la taiga sconfinata che si sovrappone perfettamente ai contorni da me immaginati dietro le pagine di Jack London. È una piena di alberelli rachitici, abeti sempre più radi e sottili, che ora lasciano il posto a radure dai colori violacei. Sono i fiori che nascono dalle ceneri degli incendi. A loro dispetto, lo spettacolo è grandioso e vivo, almeno quanto la porzione di Yukon River che mi vedo improvvisamente scorrere davanti agli occhi. Il fiume che alla fine del diciannovesimo secolo diede il via alla corsa all’oro del Klondike e a molti dei racconti dello stesso London, indubbiamente uno dei miei autori preferiti.
L’unica ‘corsa’ che per ora mi lega a esso è quella che faccio sulle assi di legno del ponte, uno dei quattro che l’attraversa lungo i suoi 3000km, che dimostrano bene la solitudine dei territori del nord America.
Nel piccolissimo complesso di moduli abitativi in cui mi fermo a riempire il serbatoio, adocchio una sorta di motel-mini market-servizio ristorante-gas station, dentro cui l’unico avventore se ne sta seduto in disparte. Sembra dolorante a una gamba, ma non riesco a capire molto perché è ancora bardato nella sua tuta da motociclista, ricoperta di fango. Ha l’aspetto di chi non vuole essere disturbato.
‘È un francese caduto pochi chilometri a nord di qui. Il camionista che me l’ha portato ha detto che l’ha trovato sdraiato per terra. Ha perso il controllo della moto e ora stiamo aspettando che arrivi l’elisoccorso’, mi fa il padrone del motel, neanche troppo sconvolto.
‘Pare si sia rotto una gamba’, chiosa come se stesse parlando di normale amministrazione.
Ne esco frastornato. Al ricordo di Italo, che si è girato il mondo per venire a inciampare proprio sulla Dalton Highway, si aggiunge l’immagine di quel poveretto con la gamba rotta.
Mi sento stupido e quanto di più lontano dalla definizione di ‘buon viaggiatore’. Certe latitudini richiedono rispetto e serietà, perché niente può essere lasciato al caso, all’improvvisazione. Invece io stavo andando allo sbando, completamente disinformato. Ogni singolo metro poteva essere quello giusto per cadere, farmi male, spaccare il motore, la frizione, la crociera, l’ammortizzatore o che ne so io. Vabbè.
Tiro avanti, per le ultime 60miglia della giornata, immerse in un chiarore perpetuo che illumina una striscia retta viscida come vaselina incastrata nella foresta boreale, fino a che un cartello indica l’Artic Circle. Apro la tenda sotto l’insegna a forma di planisfero che simboleggia l’invisibile parallelo oltre il quale il sole gioca al troppo poco o al troppo tanto, per il più solitario pernottamento a mia disposizione.
Al risveglio, il cielo pare promettersi in modo più sereno e scoperto, così che gli orizzonti verdi e viola della taiga sono anche più brillanti, lì oltre la sottile linea bianca che scorre grossomodo parallela alla strada. Si tratta di un oleodotto a quattro metri da terra, che si allontana al massimo di un paio di chilometri dalla carreggiata. Ogni tanto scompare dietro un avvallamento, per poi sbucare magari più vicino.
A Coldfoot, ultimo presidio umano prima di Deadhorse, leggo su una bacheca la storia della Dalton.
Scopro che l’oleodotto, il Trans-Alaska Pipeline, da Deadhorse arriva fino a Fairbanks e che per assemblarlo, nel 1974, si sono prima dovuti costruire i 700km di Dalton Highway, in soli cinque mesi. Nel 1994 la compagnia petrolifera ha deciso di aprire la strada al pubblico, lasciandola comunque a un livello estremamente basico; questo il motivo per cui ancora oggi è considerata una delle più estreme, isolate e pericolose al mondo.
Tra le varie raccomandazioni leggo che prima di mettersi in viaggio è fondamentale non solo accertarsi delle condizioni stradali, ma anche di quelle meteorologiche: anche d’estate è possibile la presenza di tempeste che possono rovinare consistentemente, fino a bloccare, intere sezioni di Dalton, causando ritardi nei soccorsi anche di parecchi giorni. Più una sfilza di altre norme che nel complesso ne fanno una specie di bugiardino informativo su come somministrarsi la Dalton, e che rimarca un po’ di più la mia imprudenza.
Un ultimo cartellone si raccomanda di controllare il livello del carburante: per 240miglia, poco meno di 400km, non ci sarà alcun tipo di servizio. Di rimando, un cartello al suo fianco, puntualizza che non è garantito neanche a Deadhorse.
Lascio Coldfoot verso mezzogiorno, con la pancia riempita da un ottimo hamburger. Ad accogliermi vi è un’ampia valle a ‘U’ che mi trascina scenicamente tra le Brooks Range Mountains. In uno dei tanti laghetti turchesi un alce bruca delle alghe con la testa completamente immersa. Emerge solo per respirare. Su di noi domina incontrastata la figura spigolosa di un enorme monolite granitico. Fuoriesce dal verde per un migliaio di metri.
Mi chiedo cosa dovrei desiderare di più; oltre tanta bellezza non potrei altro che perderci.
Difatti non tarda ad arrivare l’Antigun Pass con le sue polverose pendenze al 12%. La Vespa, fissa in seconda marcia, pare la motrice di un camion, lenta e inesorabile… e qualche camion cisterna, o per trasporto di mezzi movimento-terra, lo inizio ad incrociare.
La vetta è la demarcazione tra due mondi: purgatorio e inferno.
Da lì in alto osservo un fondovalle glabro, dove si srotolata la traiettoria morbida della mia discesa, il letto sassoso di un flebile ruscello e l’immancabile troncone di quel millepiedi metallico che si poggia a terra ogni quindici metri.
Ciò che segue alla catena montuosa è un falsopiano che si protrae in una serie infinita di altalenanti su e giù, senza più alberi. Un fondo di pietrisco ha sostituito la terra battuta, costringendomi a rallentare ulteriormente l’andatura.
L’ammortizzatore della Vespa mi concede poco sollievo. Il piantone dello sterzo vibra forte. Io con lui. Il contenuto dello zaino con me. È uno shakeramento costante e perseverante. Per lunghe ore cerco di solcare le zone meno disastrate della carreggiata, quelle che paiono leggermente più amalgamate con la polvere. È però pietra viva e c’è da farsi pena da soli, soprattutto quando la situazione riesce anche a peggiorare: per una quarantina di chilometri la Dalton Highway è semplicemente una distesa di pietre bianche fuoriuscite dal fondo stradale. Se ne stanno sfuse sulla carreggiata, alcune grandi come uova di gallina, altre quanto una gallina. Spesso l’impatto è inevitabile, così la ruota anteriore si solleva e con essa le stesse pietre che cozzano violentemente contro la pedana, la marmitta e il carter motore… e chiamare ‘highway’ la Dalton, mi disturba. È un aspro conflitto con la realtà.
Non mollo e avanzo faticosamente, con lo sguardo fisso sui due metri che mi precedono, le braccia tese aggrappate al manubrio, il corpo e le gambe contratte alla ricerca di un equilibrio. Sono costretto frequentemente a fermarmi per riposare.
Sono le sette di sera e rimangono ancora 100miglia alla meta. A una velocità di nemmeno 30km/h mi accorgo che sono tante, forse troppe. La presenza di qualche camionista ora mi conforta. Sono pochi, ne vedo sfrecciare due o tre ogni ora, non si fermano e non rallentano, ma almeno ci sono, coi loro polveroni che si espandono nell’aria come strisce d’aeroplani. Li scorgo da lontano, anche se a volte non li incrocio. Pare scompaiano nel nulla, risucchiati da una forza misteriosa di questo enorme spazio vuoto che sta iniziando la sua stasi asfittica e notturna. Il cielo si condensa e il paesaggio si appiattisce, irrigidendosi. Sono le sette e mezza e mi rimangono 90miglia. Non posso far altro che andare avanti, nel Nord vero e privo di compromessi… e man mano che i copertoni sbattono da una pietra all’altra, riesco ad avvicinarmi al punto della situazione, a ritroso. Inizio a chiedermi quanto in Canada fosse stata casuale quella sosta per riparare il mio copertone da Bill. Mi ci fermai perché il lieve rimorso di non farlo sarebbe stato di poco superiore al disturbo di deviare verso la sua officina. Grazie a Bill, qualche ora dopo, Sir Lindsay MacPiterson venne a conoscenza della mia esistenza, incuriosendosene. Per combinazione mi incontrò in quell’ultimo paesino del suo viaggio, dove grazie al suo biglietto in più mi trattenni con lui per quattro giorni ad ascoltare bluegrass. Una sosta che poche ore dopo permise al messaggio di Miriam di raggiungermi quando ero a meno di un giorno di viaggio da Anchorage. Se avessi ricevuto quel messaggio solo uno o due giorni più tardi non avrei conosciuto Italo e la sua storia. Il suo risveglio mi aveva donato un’emozione enorme e forse, un po’ per sdebitarmi, un po’ per fargli giustizia, ora mi stavo ritrovando ad andare a toccare il punto più in alto d’America. Un appuntamento che forse mi presi nel perfetto istante in cui entrai da quel vecchio gommista canadese tolto alla pensione. Una concatenazione di circostanze ed eventi che la stessa Miriam di lì a qualche mese, su un porticciolo della California, avrebbe chiamato destino. E che a me provavano a dare il senso di quella quasi-insensata deviazione fino al Mar Artico.
E mentre navigo nelle mie fantasie, all’improvviso vedo materializzarsi nella steppa centinaia di caribù. Hanno palchi magnifici, con corna sottili e lunghe. Il loro manto varia dal bruno, al grigio, al giallastro, permettendo loro di mimetizzarsi col circondario. Sono migliaia, su ogni lato, vicini qualche decina di metri e lontani chilometri. I più temerari attraversano la strada davanti a me.
È un branco infinito di esemplari che brucano il loro pezzettino di terra con una movenza lenta e distaccata, orientata magneticamente verso nord. Sorrido se penso a quell’unico caribù avvistato per magnanima sorte al Denali National Park, così distante dalla navetta che per scorgerlo bisognava affidarsi a doti di chiaroveggenza, ma che aveva comunque suscitato tanti batticuori nei turisti accalcati dietro i finestrini.
Li osserverei per ore, ma non posso fermarmi. Sciami di zanzare fameliche mi puntellano dappertutto e sguscerebbero fin dentro il casco se mi dilungassi ancora un po’. Inizio a credere siano la punizione divina per i dannati che osano spingersi tanto fuori dal mondo. Una specie di contrappasso che mi obbliga a proseguire senza sosta nella piatta landa desolata, grigia, fredda e fondamentalmente triste: il deserto artico, ultimo sprazzo di terra prima del ghiaccio polare.
Anzi, il ghiaccio è già presente qualche centimetro sotto la superficie. Sono su un enorme blocco di permafrost, umido e fangoso, di un colore sbiadito tra il verde marcio e il marrone, su cui spira un alito glaciale che si infila in ogni dettaglio.
Ad angosciarmi di più vi è solo la condizione del manto stradale, tornata impossibile come i primissimi chilometri di Dalton. Così le ultime 52miglia si rivelano una poltiglia pesante che si sfalda al passaggio dei copertoni. Ogni tanto compare qualche cumulo di pietrisco. Passarci in mezzo è quasi fatale e per due volte mi scodinzola l’avantreno e per altrettante volte rischio di franare a terra.
A livello psicologico, sono messo peggio. Sono talmente stanco che mi ha abbandonato anche quella sorta di buffo eroismo rabbioso. È tardi, ho quasi finito la benzina e sono disperso in un territorio che mi ha sputato terra nella bocca e fango dappertutto. Per me è ormai tutto diventato un raggruppare e lanciare qualche metro avanti le mie motivazioni, per non fermarmi.
Ogni 5miglia è segnalata la distanza che manca a Deadhorse.
35miglia
30miglia
Non passa più. Ho la tentazione di spalancare il gas, ma resisto. Continuo con una seconda appena accennata. La visibilità si è ridotta. La parte sinistra della strada mi pare leggermente più compatta. Procedo contromano. Ma presto tutto si uniforma e inizio a vagabondare per l’intera carreggiata, cercando di seguire, tra i profondi solchi che la fendono, le sfumature più promettenti. Lascio ai camionisti il piacere di schivarmi.
25 miglia
Riserva. Cazzo, no! La mia autonomia è di 30km e me ne mancano ancora 40. Tutte le scorte di benzina le ho già versate nel serbatoio.
20 miglia
15 miglia
10 miglia
All’orizzonte intravedo le ombre di un paio di gru e puntini di lucine arancioni.
5, 4, 3, 2
All’ultimo miglio il motore esala il suo ultimo respiro. Il mio cavallo, muore. Dead horse!
Mi ci sono voluti 381km per concedere al destino il suo scherzetto finale. Mi vien da sorridere un’altra volta e abbandonato sul ciglio della strada, paradossalmente, mi si stempera tutta la tensione accumulata… ancor prima di riuscire a rimediare un litro di carburante, inizio a realizzare di avercela fatta… e mi piglia un impulso di orgogliosa felicità, da condividere con la Vespa. Ha le spalle dei copertoni consumate, il paraspruzzi posteriore distrutto dalla sassaiola e la spessa corazza verde incrostata di fango… ma non per questo, vinta. Mi ispira un coriaceo senso di solidità.
Corazzata!
Un nome che s’illumina in qualche sinapsi del mio cervello.
La chiamerò Corazzata!
Mi piace e mi pare giusto. Inaffondabile navigatrice di terre.
Alle 23.45 del 26 giugno, dopo una tappa di 520km e 15 ore di inferno, entro a Deadhorse a bordo della Corazzata. Estremo nord del nord del Nord America. Oltre, non si può proprio andare, nemmeno a parole.
Tra i grandi raid, uno degli ultimi e più affascinanti è quello raccontato da Lavarra. Gli incontri sono stati numerosi e di forte impatto. Un viaggio che dal punto di vista delle emozioni ha avuto probabilmente pochi rivali.
Corriere della Sera
Alla voce “sponsor” c’è solo una scritta, sprezzante e provocatoria: “Libero da tutto. 100% free”.
Perché questo è il vero viaggiare.
la Repubblica
“21Americhe” è il racconto di quel viaggio denso di trame emotive che si intrecciano, dove tutti vanno a sfiorare l’onda euforica di quella libertà spensierata, egoista e terribilmente faticosa.
la Stampa
Il giro che ti cambia la vita.
Motociclismo

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